28
Ottobre, 1967. Tokyo.
Aveva preso la sua bambina e l’aveva poggiata
sul letto. La guardava insistentemente, ma non con gli occhi di una madre. I
suoi occhi grondavano di odio. Quella creatura le aveva portato via ogni cosa,
tutta la sua linfa vitale. Non l’avrebbe mai amata. Mai.
31
Ottobre, 2012. Tokyo.
Tolsi dal forno la teglia con i biscotti
ricoperti di glassa bianca e li misi uno ad uno nel piatto a forma di zucca.
Quel piatto mi piaceva molto, lo avevo trovato per caso in un super market vicino
alla Stazione e mi era costato pure poco. Mi leccai le dita sporche di briciole
e, dopo essermi guardata le spalle, assaggiai una delle mie creazioni. “Sono
perfetti!” pensai, entusiasta. Era la prima volta che mi cimentavo in una
ricetta del genere, biscotti al cioccolato con scaglie di cioccolato fondente ricoperti
di glassa bianca. Ero soddisfatta del risultato che avevo ottenuto, ed ero
certa che anche Haruka ne sarebbe rimasta entusiasta. Andavo matta per i dolci
e adoravo cucinarli, ma non mi era permesso. Potevo sfogare la mia fantasia da
pasticcera solamente durante i giorni festivi e le occasioni speciali, perché mia
madre odiava il profumo dei dolci. Li trovava disgustosi, per lei l’odore della
crostata alle mele era nauseabondo. Preferiva mangiare verdura e frutta
piuttosto che riempirsi la pancia di “porcherie”. In più, mia madre non voleva
che mangiassi dolci per un secondo motivo; era terrorizzata dal fatto che potessi
tornare quella di una volta, una triste ragazzina di sedici anni sovrappeso
senza un fidanzato e con pochi amici. Adesso avevo diciassette anni, me la
cavavo piuttosto bene a scuola e continuavo a non avere un ragazzo, ma ero
magra quanto bastava per far tacerle la bocca, anche se adesso se la prendeva
con le sgualdrine che c’erano in giro per Tokyo. “Con tutte quelle svergognate
in giro, è ovvio che è difficile trovare un bravo ragazzo. I pezzi migliori ce
li hanno loro, quindi non scoraggiarti, tesoro! Dottori, avvocati, consulenti,
finanziari… tutti ingannati da quelle sgualdrine, ma presto anche tu troverai
qualcuno alla tua altezza. Non ci sono più i bei ragazzi seri d’una volta, ora
pensano tutti soltanto a una cosa… raccapricciante!”
– Io vado, tesoro! – sentii la voce di mia
madre dal corridoio, - fra mezz’ora dovrebbero passare i figli dei Moroyoto,
quindi cercate di farvi trovare pronti con le caramelle; le ho comprate solo
per loro. Sono delle brave persone e sono i nostri vicini, dobbiamo essere
gentili! E non voglio fare brutta figura per nessuna ragione al mondo. Ma che
fai? Mangi quelle schifezze? – mi fulminò con lo sguardo, mentre cercavo di
leccare gli ultimi residui di glassa bianca che avevo sulle punte delle dita. –
Un dolce non mi farà male, - risposi, sentendo in aria odore di tempesta.
“Litigio-madre-e-figlia” a ore dodici.
Mia madre non mi staccò gli occhi di dosso, gli
stessi occhi neri come il catrame che riuscivano a tenermi incollata alla sua
faccia per più di venti minuti durante un qualsiasi litigio. Mi terrorizzava; con
lei mi sentivo scoperta, come se potesse leggermi dentro e scoprire tutti i
peccati che avevo commesso e i segreti che avevo serbato solo per me in quegli
anni. – Non mangiarli, ti faranno male. – La sua risposta tagliente mi lasciò
un groppo in gola. Posai il biscotto che avevo preso un secondo prima,
maledicendomi per non aver reagito. Da quando era morto mio padre, cercavo di
non urtare i sentimenti di mia madre. Anche se era una vipera e teneva alla sua
reputazione più di qualsiasi altra cosa, era pur sempre mia madre. Cercavo di
vederla in questo modo. – Vado, tornerò tardi. Metti a dormire Haruka prima di
mezzanotte, non voglio questioni, - prese il mazzo di chiavi e uscì dalla
porta, salutandomi con un cenno del capo. – Haruka! Mamma se n’è andata! – gridai,
dirigendomi verso la sua stanzetta. – Sei pronta? – mi affacciai dalla porta.
Haruka stava giocando con i peluche, profumava di gelsomino e aveva indosso un
paio di mutande rosa e la canottiera con i risvolti rossastri. – Ma perché non
ti vesti? –
- Sono piccola, non posso vestirmi da sola. Il
costume è complicato da indossare, - mi rispose. La sua voce mi parve triste e
malinconica. Non era entusiasta di questa serata, avrebbe tanto desiderato
festeggiare Halloween a casa di una sua compagnetta di scuola, ma mamma non
glielo aveva permesso. – Dài, non fare così… ti prometto che ti farò mangiare
una montagna di dolci e la mamma non lo verrà mai a sapere, - dissi,
accovacciandomi vicino a lei. Haruka faceva finta di niente, come se fosse
offesa con me, e se ne stava seduta sul tappeto ad imitare le voci di uno dei
suoi peluche. Continuai a parlarle, cercando di confortarla. – Mamma adesso è
andata via, abbiamo una serata a nostra disposizione e ho fatto i biscotti… non
dimenticare che anche noi mangeremo quei dolci fantastici! Ne ho assaggiato
qualcuno, e ti posso assicurare che sono buonissimi! –
C’ero passata anch’io, purtroppo. Anch’io
avevo rinunciato ai pigiama party delle mie amichette a causa delle cene di
lavoro di mia madre e anch’io ero stata costretta a restare a casa invece di
raggiungere le mie compagne alle feste della scuola, e mi faceva ribollire il
sangue nelle vene sapere che anche la mia sorellina avrebbe fatto la stessa
fine. Non volevo che Haruka cominciasse a fumare nei bagni della scuola a
quattordici anni, facendosi comprare le sigarette dai bidelli, per poi passare
alle canne passate dai conoscenti alla stazione. Non volevo che anche lei
provasse amarezza l’attimo dopo aver perso la verginità con uno sconosciuto
incontrato una sera al pub, dopo aver bevuto due bottiglie di vino. Non
desideravo questo per Haruka. Lei era speciale. Era unica, sensibile, dolce.
Era diversa da me e da tutti.
- Perché devo indossare quel costume se devo
stare sempre qui, nel palazzo? Non ha senso, non lo voglio! – mi rispose, infine.
Restai un attimo a riflettere. Era vero. Mia madre aveva concesso ad Haruka il
privilegio di fare “dolcetto o scherzetto” di porta in porta nei limiti
consentiti, in poche parole “è proibito uscire dal palazzo senza il mio
consenso, ed io ho deciso di non darvelo”. Riflettei un secondo alle parole di
mia madre, curde ed aspre, e guardai il viso cupo della mia sorellina. – Se ti
vesti subito e mi prometti di fare presto… usciamo dal palazzo e ti porto a
fare dolcetto o scherzetto nelle case vicine! –
All’improvviso il volto di Haruka si
illuminò. - Davvero? – esclamò, entusiasta. Sorrisi dopo aver visto la sua
espressione felice e beata. “Bingo!” pensai di aver trovato la soluzione,
finalmente, e di aver salvato la festa di Halloween. – Ma certo, signorina! Oh,
ma è tardi… dovresti vestirti! Su, su! – imitai la voce di un sergente e mi
alzai. Camminai verso la porta, battendo le mani. – Su, su! – ripetei e in men
che non si dica Haruka afferrò il costume di Halloween poggiato sul letto e
andò in bagno a vestirsi. Risi, poi mi voltai per andare in cucina. “Mi sa che
mangerò un altro biscotto.” Lanciai uno sguardo veloce e distratto allo
specchio del corridoio. Bloccai il passo. “Cosa?” guardai nuovamente il mio
riflesso nello specchio. Ero io. Non c’era nessun altro. “Sarà stata
un’impressione!” pensai, perplessa. Eppure ero certa di aver visto degli occhi
azzurri. Occhi che non erano i miei. “Occhi
che avevo già visto, una volta.”
4 Novembre, 1983. Tokyo.
Cinque, quattro, tre, due, uno. Il conto alla
rovescia era finito, Maya si alzò di scatto e si guardò intorno con curiosità.
– Ora vengo a cercarti! – disse, saltellando. Guardò sotto al letto con le
coperte rosa e trovò Mr. Teddy. – Eccoti qui! – fece finta di essere sorpresa.
– Ti ho trovato! Non sei stato bravo, stavolta. – Commentò, divertita, mentre
sistemava l’orsacchiotto bianco col fiocco blu scuro sulle lenzuola. La mamma
non c’era e la badante stava dormendo nel soggiorno. Era sola e non sapeva come
impiegare il tempo. Si volse di scatto. La pallina con la faccia di Hello Kitty
era caduta dal comodino e stava rotolando rumorosamente verso la porta che
collegava la stanza al corridoio. Maya corrugò la fronte. Aveva sistemato la
pallina in maniera tale che non potesse cadere, ne era sicura. – Torna qui! –
Maya corse in corridoio per riprendere il suo giocattolo. Si chinò e afferrò la
pallina. Era bagnata. Alzò lo sguardo e vide che l’acqua fuorusciva dai bordi
dello specchio che sua madre aveva sistemato in corridoio. Era troppo bassa per
potersi specchiare, ma abbastanza alta per scorgere le gocce d’acqua impregnare
rapidamente il tappeto del corridoio. Maya non capì. “Perché l’acqua esce dallo
specchio?” si chiese, credendo che gli unici posti della casa in cui si potesse
trovare dell’acqua fossero la cucina e il bagno. Anche sua madre glielo diceva
sempre. Fece per voltarsi, voleva chiamare la signora Fujitani per raccontarle
cos’era successo allo specchio, e affondò il piede nel fango. Urlò per lo
stupore, sbarrando gli occhi neri. Era tutto pieno di fango, melma putrida e
marrone con riflessi sanguinei. Maya non sapeva cosa fare; fino a pochi secondi
prima il corridoio era pulito, il pavimento era soltanto un po’ bagnato. E
adesso era tutto pieno di fango. – Ma cosa…? – appoggiò la mano sulla parete
rosa antico che ben presto si tinse di rosso. Lasciò cadere la pallina di gomma
di Hello Kitty, che rotolò nella melma fino a scomparire del tutto. Il livello
del fango cominciò a salire, ormai le arrivava alle ginocchia. Le faceva male,
quel fango. Era freddo. Non è fango.
Maya tentò di aggrapparsi ai bordi del mobile
in abete, ma tirò via il tappetino su cui erano poggiate le foto di famiglia.
Le cornici con le foto si dissolsero nella melma rossastra che, minuto dopo
minuto, diventava sempre più appiccicosa. Non
è fango. Ripeteva quella voce nella sua testa. Una voce dolce, premurosa e
al tempo stesso sensuale. Non è fango. E’
sangue.
Maya sbarrò gli occhi e tentò di salire sopra
il mobile, ma non ci riuscì. Le dita scivolavano, erano sudate come il resto
del corpo. Sudava freddo. - Aiuto! Aiutatemi! – Maya urlava. Cercò di gridare
con tutto il fiato che le era rimasto nei polmoni per farsi sentire con la
speranza che tutto quello che le stava accadendo fosse solo un brutto sogno. Un
incubo. Il sangue coagulato le arrivava al mento, ormai. Decise di chiudere la
bocca e di nuotare per raggiungere il soggiorno, come le avevano insegnato in
piscina l’Estate scorsa. Chiuse gli occhi. Sentì il peso del suo corpo portarla
a fondo, sul tappeto. In fondo… sempre più giù.
Maya,
Maya, Maya. Che bel nome che è, Maya.
La voce tornava a rimbombarle nell’orecchio. Ripeteva il suo nome. Lo intonava,
quasi fosse una canzoncina di Natale. Aveva paura, quella voce cominciava a darle
i brividi. Aprì gli occhi e cadde con un tonfo sul letto della sua stanza,
incredula di essere ancora viva. “Respiro!” si toccò la gola con la punta delle
dita, ancora terrorizzata. Il petto compiva un movimento frenetico; su e giù,
su e giù… incessantemente. Il respiro corto, affannato e al suo lato il peluche
bianco. Maya cercò di trattenersi le lacrime, pensando di essersi totalmente
dimenticata che quello che aveva vissuto, in realtà, era soltanto un incubo. Un
orribile incubo.
Abbracciò Mr. Teddy con le lacrime e col
senso di paura che le attanagliava la gola come delle grosse tenaglie. Pianse a
dirotto fin o a quando non riconobbe l’odore acre del sangue. Quell’odore
nauseabondo le aveva impuzzolentito il vestito. Pensò alla punizione che il
papà le avrebbe dato, una volta scoperto il pasticcio che aveva combinato;
quando posò il peluche sul cuscino, si rese conto che l’odore non proveniva
soltanto dal suo vestitino nuovo. L’orsacchiotto era zuppo di sangue, era zuppo
di quel rosso intenso e maligno. Maya gridò. – Cosa succede?! Cosa succede?! –
ripeté nel panico, saltando giù dal letto ad una velocità impressionante. –
Cosa succede?! – la sua voce tremava, come il resto del suo corpo. I capelli
neri puzzavano di sangue. La sua bocca aveva lo stesso sapore del sangue. Ormai
non poteva più liberarsi di quell’odore forte, aspro e nauseabondo. Maya corse
verso il corridoio, intatto e pulito. – Signora Fujitani! Signora Fujitani! –
cominciò a correre per raggiungere il più in fretta possibile il soggiorno.
Non ti
piace il sangue? La voce continuava a rimbombarle nella testa, con lo
stesso tono. Con la stessa frequenza e la stessa insistenza. Non ti piace? Io
l’ho fatto per te. – Signora Fujitani! – Maya cercò di svegliare la signora che
era sdraiata sul divano, con la faccia rivolta dalla parte opposta,
scrollandole con forza le spalle. Maya mise forza e si ritrovò con il volto
della badante vicino agli occhi. – Signora Fu… - Maya gettò un urlo
raccapricciante. Il volto irriconoscibile a causa del sangue. Ed era senza
pelle. Quel volto severo e paffuto, come lo ricordava bene Maya, era divenuto
un groviglio di carne macinata e vermi bianchi, annidati sotto le vene scoperte
e marce. I bulbi oculari erano troppo distanti per ricreare lontanamente l’immagine
di un viso in carne ed ossa; l’occhio sinistro non era più al suo posto, forse
era caduto da qualche parte o era rimasto incastrato in una piega del divano,
l’occhio destro, invece, era rimasto ancora attaccato al groviglio di carne che
componeva la faccia della burbera signora Fujitani. La bocca, spalancata,
mostrava una fila di denti perfettamente curati e bianchi come la porcellana
che ospitava un nido di tarme. Il puzzo di morte e di pesce marcio investì le
narici della piccola, facendola indietreggiare. Aveva il cuore che batteva
ripetutamente, producendo un suono sordo, come se stessero battendo un pugno
sulle lenzuola. Un suono talmente forte che Maya pensava potesse essere udito
da chiunque si trovasse a pochi metri da lei. Non c’era nessuno in casa, né sua
madre né suo padre. “Devo uscire da qui!” pensò, ancora sotto shock. Lo stupore
le aveva bloccato i piedi a terra, quasi come se ci avessero versato sopra del
cemento.
Non ti
piace? L’ho fatto per te.
La voce non era più nella sua testa, era vicino a lei. Proveniva da un angolo
della stanza, ne era certa. Si voltò lentamente, col cuore in gola e le tempie
che pulsavano per il terrore. Dietro di lei c’era una bambina, più o meno della
sua età. Più o meno con i suoi stessi occhi. Aveva in mano un coltello sporco
di sangue. E aveva il vestito, bianco panna con i risvolti beige scuro,
macchiato di rosso. Maya rimase paralizzata di fronte a questa scena, pensava
ancora a scappare e a chiamare aiuto. Ma non ci riusciva.
Io non
voglio che tu te ne vada. Devi restare.
Maya indietreggiò di un passo. La testa
pesava una tonnellata, pensieri su pensieri le opprimevano ogni ragionamento
sensato. Non c’era soluzione. Non più, ormai. – Chi sei? Vattene! Vattene! –
urlò, piangendo. La bambina col vestito bianco e i capelli raccolti si avvicinò
pian piano a lei, tentennando ad ogni passo, come se le avessero inflitto una
coltellata alle spalle. Maya era terrorizzata da quella… cosa. Non poteva
mandarla via. Sapeva che se anche avesse provata a scacciarla via, lei non se
ne sarebbe mai andata. – Cosa vuoi? – La bambina aveva un viso stupendo,
candido e all’apparenza surreale. Un viso che era stato squarciato da un taglio
profondo, ora divenuto cicatrice, che divideva in due parti il volto. Gli occhi
neri come la pece, come i suoi, e i capelli lisci, raccolti in una coda di
cavallo con un fiocco macchiato da qualche piccola macchia rossastra. Sei sempre sola in questa grande casa,
disse la bambina con un sorriso sinistro. Ci
sono io a farti compagnia. L’ho fatto per te. Alzò il coltello all’altezza
del mento. Dalla lama cadde una piccola e abbondante goccia di sangue che finì
sul pavimento. L’ho fatto per insegnarti
le regole del gioco.
31
Ottobre, 2012. Tokyo.
Lasciai che la porta si richiudesse da sola alle
mie spalle, con un piccolo movimento. Mi accorsi che non era stato un colpo di
genio, dato che erano quasi l’una di notte. Ero abituata a rientrare tardi,
anche contro il volere di mia madre, ma in quelle occasioni cercavo sempre di
non far troppo rumore. Adesso, invece, sapendo la casa vuota, non mi importava
più di tanto. “Con tutta probabilità i vicini saranno svegli, a quest’ora… è
Halloween!” pensai, gettando la borsa sul pavimento dell’ingresso. – Quanti dolci! – esclamò Haruka, contenta e
soddisfatta del suo bottino. Io le sorrisi, ricambiando la sua occhiata
entusiasta. – Sì, è vero. Hai preso tanti dolcetti! – il mio sguardo ricadde
sulla vaschetta a forma di zucca intagliata di Halloween che Haruka portava
gelosamente fra le mani. L’odore di dolce e caramello era così forte da far
venire il mal di testa, perfino io cercavo di trattenermi dal non mangiare
tutto quello che avevamo raccolto in serata. – Vatti a cambiare, su! – le
dissi, facendole cenno in direzione della cucina. – Prima, però, posa il tuo
bottino sul tavolo. –
- Non li mangiare tutti. – Mi disse, ubbidendo
come una brava sorella. Mi sentivo bene. Ero riuscita a regalarle una notte
diversa, una notte magica. “Merda!” pensai di botto alla raccomandazione di mia
madre. “Dovevano passare i fratelli Moroyoto! Sicuramente saranno già passati…
merda!” pensai. E chi l’avrebbe sentita mia madre l’indomani mattina? E poi, se
avesse scoperto che avevamo disubbidito, avrebbe punito sia me sia Haruka. No,
non potevo permettere che accadesse tutto questo. “E adesso che faccio?”
L’unica soluzione era andare dai Moroyoto e
offrire loro i dolci che mia madre aveva comprato per l’occasione. La verità
era che mia madre voleva fare colpo sulla famiglia Moroyoto. Il signor Moroyoto
era un importante uomo d’affari e mia madre era la tipica cittadina modello che
desiderava con tutta se stessa fare una buona impressione su chiunque si
trovasse nei paraggi. “Non posso affrontarla. Una roba di poco conto come
questa per lei diventerà l’Apocalisse!” pensai, immaginandomi la scena di un
litigio apocalittico con pentole e piatti di mezzo tra me e mia madre. Magari
potevo inventarmi una scusa del tipo “eravamo in cucina e non abbiamo sentito il
campanello, ci dispiace” o le solite frasi fatte che si dicono in questi casi o
in alcune circostanze. “Devo fare qualcosa, alla svelta anche!” uscii
dall’appartamento, lasciando la porta semiaperta. – Haruka, sto uscendo un
attimo! – dissi. Corsi verso la porta dell’appartamento dei Moroyoto, il
respiro corto e la mente in subbuglio. “Okay… ehm, salve, sono Tomoka Ibana e
abito qui vicino, ho comprato dei dolci, mi chiedevo se i vostri figli
volessero passare da casa nostra per averli. Okay, direi che può andare bene.”
Suonai nuovamente al campanello, mentre restavo ferma davanti alla porta.
Aspettai qualche altro minuto e suonai per la terza volta, perplessa. “Forse
sono usciti anche loro.” Era l’unica spiegazione plausibile. “Mi conviene
tornare dopo…” conoscendo i signori Moroyoto, era probabile che fossero
impegnati ad una cena e che avessero portato i figli da qualche parente.
Rientrai in casa, era tutto immerso nel buio quasi totale. Una scia di luce
filtrava dalla porta della cucina, dalla serratura. Mentre mi incamminai verso
la cucina, sentii le scarpe calpestare qualcosa di… appiccicoso, viscido.
Bloccai il passo e restai immobile su quel punto per qualche secondo.
31
Ottobre, 1974. Tokyo.
- Assistente Tanemura! – la radio lo distrasse
da quello spettacolo raccapricciante. Tanemura sbatté le palpebre, ancora incredulo.
Si mise il dorso della mano vicino alla bocca, trattenendo quel pugno di vomito
che gli aveva scombussolato lo stomaco nel giro di pochi secondi. – Tanemura,
Tanemura! – le voci del suo capo lo obbligò a rispondere. – Sì … signore. Le
abbiamo trovate. –
- Il palazzo sta andando ancora a fuoco. Loro
sono vive? La bambina? – Tanemura stette in silenzio, deglutendo. – Tanemura,
sono vive? –
- No, signore. Sono morte. –
Ci fu una pausa abbastanza lunga, Tanemura
credé quasi che il suo capo avesse chiuso la conversazione. – E la bambina? E’
morta? –
- Sì, è morta. –
- Cosa devo dire alla famiglia e al signor
Tanaka, Tanemura? Come sono morte sua moglie e sua figlia? Che disgrazia… - la
voce del capo esitava a continuare il discorso. – Co… cosa devo dire al padre?
– Tanemura restò per un attimo paralizzato, non spiccicò parola. Dinanzi a lui
vi era quello scempio fatto di carne e budella sparse. La bambina era sdraiata
sul pavimento, col volto pallido rivolto al soffitto, nel soggiorno. Aveva
un’aria così tranquilla e beata che Tanemura avrebbe potuto anche dire che
stesse dormendo, nonostante fosse completamente sporca di sangue. Il vestitino
bianco con i ricami che disegnavano una farfalla su un fiore era divenuto ormai
rosso. Le ferite alla gola che la madre le aveva procurato in un momento di
pazzia erano nascoste dal colletto in pizzo, anche se alcuni pezzi di carne
erano ancora ben visibili per terra. In Giappone era diffusa una credenza;
molti credevano nei fantasmi e negli spiriti, ma esistevano due categorie di
fantasmi, coloro che non si davano pace e coloro che tramavano rancore nei
confronti di ogni essere umano. Chi muore
per mano di qualcuno che ama sarà destinato a serbare rancore e odio per tutta
la vita. Tanemura non riusciva a credere che una bimba di soli sette anni
potesse corrispondere a questa credenza popolare. Era un’assurdità, quella
bimba era soltanto una vittima, vittima di una tragedia che nessuno mai avrebbe
potuto prevedere prima di quella notte. Trattenne le lacrime, quando vide che
la mano destra della piccola era vicina al peluche con il quale, presumeva, la
piccola passava interi pomeriggi a giocare. “Una disgrazia… Come si può fare
questo a un figlio? Come?” pensò, chiudendo gli occhi e imponendosi di
raccogliere i corpi. Doveva riportarli al padre, quel pover’uomo che in un
giorno aveva perso la moglie e una figlia senza alcun motivo. Tanemura si
diresse verso il corpo della donna senza vita; si era sparata un colpo di
pistola alla tempia, dopo aver appiccato il fuoco in corridoio e dopo aver
ucciso la propria creatura. I pezzi di cervello sparsi sul pavimento
producevano un rumore sgradevole, una volta schiacciati sotto la suola degli
scarponi. Avvolse il corpo della donna in una coperta che aveva trovato lì
vicino, mentre aspettava i rinforzi. Si volse per prendere la pistola e
conservarla… e si accorse che la bambina era sparita.
Ore 3:17.
Aprirono la porta, trascinando la barella e
tutto il necessario per il recupero dei corpi. L’appartamento era stato
travolto dal fumo e dal puzzo di sangue marcio che si espandeva nel corridoio
del palazzo, in cui era possibile osservare le macchie scure sugli angoli e
sulle pareti, ossia gli ultimi residui dell’incendio che la donna aveva
appiccato. – Tanemura! Siamo qui! – Il fumo oscurava loro la visuale, non
riuscivano a vedere nulla. La maschera collegata alla bombola ad ossigeno
permetteva loro di respirare meglio, specialmente all’interno di quella parte
dell’edificio immersa nel puzzo di cenere e fumo. Controllarono tutte le stanze,
ma dei corpi non vi era alcuna traccia. Aprirono l’ultima porta che, a
giudicare dal pomello e dal fiocco rosa, doveva trattarsi della stanzetta della
bambina. Poi trovarono il cadavere della donna. – Non ci credo! – esclamò uno
della pattuglia, coprendosi gli occhi. Alcuni indietreggiarono, sconvolti.
Avevano detto che entrambe le vittime si trovavano in soggiorno, sdraiate sul
pavimento. In soggiorno non c’era nessuno, vi erano solamente delle grosse
macchie di sangue, divenute quasi marroni, che coprivano gran parte del
pavimento. Il corpo della donna gocciolava di sangue e pendeva dal lampadario
della stanza della bambina, lasciando macchie rosse sulle lenzuola rosa e
bianche. Il cervello si trovava fuori dalla parte superiore del teschio, simile
a una poltiglia di carne annacquata che colava ogni volta che la fune, stretta
al collo della donna, faceva dondolare di poco il cadavere. La veste che
indossava la signora Tanaka non corrispondeva alla descrizione di Tanemura;
aveva detto che portava una gonna con motivi floreali e una maglia arancione
con le maniche lunghe fino ai gomiti, ma non era affatto così. Indossava una
veste bianco panna con dei ricami beige che formavano un disegno ben definito,
quello di un fiore e di una farfalla.
- Tanemura! Dove sei? Tanemura! – gridò uno
dei ragazzi presenti, probabilmente un collega di Tanemura. Cercarono
attentamente sotto al letto della stanza con un senso di paura misto al
ribrezzo. I piedi della donna morta dondolavano a pochi centimetri dal collega
che, accovacciato, cercava la bambina sotto al letto. – Non c’è! – l’uomo si
rialzò e per un attimo si incupì. – Cos’è successo? – gli chiese uno al suo
fianco, osservando la sua espressione perplessa. – Che hai visto? –
- Mi è sembrato di vedere qualcuno… - rispose.
– Mi è parso di vedere degli occhi neri riflessi in quello specchio, - indicò
con un cenno del capo lo specchio che si trovava in mezzo ai peluche. – Credo
di essermi sbagliato. – Passarono per la cucina, una delle poche stanze che
erano rimaste, subito dopo aver controllato il bagno nella stanza di una delle
figlie del signor Tanaka. Le porte a scorrimento in vetro erano intatte, lucide
come se fossero state appena pulite da una governante. Dalla parte inferiore
della porta fuorusciva una grande quantità di sangue. Quando aprirono le porte,
restarono senza parole; c’era un uomo nudo e aveva la faccia sfigurata da un
coltellaccio da cucina la cui lama oltrepassava la guancia destra fino
all’orecchio sinistro, divenuto irriconoscibile, e il braccio consumato dal
tritacarne che si trovava accanto al lavello, che grondava di acqua e sangue
sotto al rubinetto aperto, e con i piedi senza dita. Una ferita profonda
lasciava intravedere le budella nella parte inferiore dello stomaco. Molti
colleghi urlarono di terrore, altri scapparono immediatamente da
quell’appartamento. Avevano trovato Tanemura.
31 Ottobre, 2012. Tokyo.
La brodaglia di sangue e di fango, che stava
impuzzolentendo i mobili, fuorusciva dai rubinetti del lavello. Corsi
immediatamente a richiuderli, anche se ero convinta del tutto di non averli
lasciati aperti, ma più cercavo di chiuderli e più usciva quella roba. Il
lavello straripava. “Ma cosa diavolo è ‘sta merda?” avevo la maglia e i
pantaloni zuppi. Il fetore era quello del sangue, lo riconoscevo. Inciampai
all’indietro e sbattei il gomito sullo spigolo del tavolo. Imprecai,
massaggiandomi velocemente la parte dolorante. “Haruka… dov’è Haruka?” Non
sentivo la sua voce da un po’ e mi feci prendere dal panico. “Haruka!”
Mi alzai di scatto e corsi in camera di mia
sorella. Doveva essere lì. La brodaglia marrone e rossastra stava allagando
tutta la casa, mi arrivava alle caviglie. “Merda!” imprecai e spinsi la porta
della cameretta, mentre sentivo il livello della melma che saliva sempre di
più. – Haruka! – gridai. Mi aggrappai alla scrivania, evitando di cadere
all’indietro. C’era qualcosa, sotto il livello della melma, che cercava di
tirarmi giù. Alzai lo sguardo e vidi una bambina, seduta tra le lenzuola di mia
sorella, coi capelli lunghissimi, neri e sciolti. Non era Haruka, anche se i
capelli erano molto simili. Sussultai per lo spavento, c’era qualcosa di
sinistro in tutto quello che stava per accadere. Qualcosa che non potevo né
sapevo spiegare. – Chi sei? –
La bambina era girata di spalle, mi era
impossibile vederle il volto. Stava spazzolando la testa di un orsacchiotto
bianco con un fiocco blu al collo e stava intonando una canzoncina che, dal
suono, somigliava a una canzoncina natalizia. L’orso camminava sul sentiero da solo e poi incontrò un piccolo bruco e
poi incontrò un amico che gli disse vieni con me, non sarai più solo…
Era strano come i ricordi riaffioravano nella
mia testa; quelle parole mi erano familiari perché era una filastrocca che
cantavo sempre da bambina, ai tempi dell’asilo. Me l’aveva insegnata un’amica e
da qualche anno avevo completamente rimosso questo particolare. Anche Haruka,
qualche settimana fa, cantava questa filastrocca. Continuò così per qualche
minuto e la bambina non mi rispose, sembrò quasi che non volesse darmi retta. –
Dov’è mia sorella?! – urlai, col cuore che batteva a mille. Sentivo ogni
piccolo battito cardiaco sulla gabbia toracica, sentivo il suono sordo
rimbombarmi nel petto fino a soffocarmi il respiro. Ad un tratto qualcosa mi
tirò giù, nella melma, che ormai mi era arrivata alla vita. Sprofondai nel
sangue e il sapore del ferro mi inondò le narici e la bocca. Era sangue, ma
aveva un sapore alquanto strano; sembrava quasi che ci fosse del pesce marcio e
delle uova andate a male nel mezzo, qualcosa che non era fango. Poi aprii gli
occhi e vidi un volto sfigurato a pochi centimetri dalla mia faccia. E poi un
pezzo di braccio. E un pezzo di piede dall’altra parte. Urlai, ma le mie parole
risalirono in superficie sottoforma di bolle e le mie mani non riuscivano a
portarmi su. Ero in una merda liquida assieme a dei cadaveri. Stavo respirando
e inghiottendo sangue e pezzi di persone morte. Agitai le braccia, imprecando
silenziosamente. Non mi arrivava più ossigeno ai polmoni. “No! No! No!” pensai
al peggio. Pensai che fosse finita… o che fossi rimasta intrappolata nel
peggiore dei miei incubi. “Perché cazzo non riesco a risalire?!” più cercavo di
emergere e più affondavo. E Haruka dov’era? Cosa le avevano fatto? Il panico
aveva preso il sopravvento. Sentii una presa alla caviglia e quando guardai giù
vidi il volto della bambina che era sul letto. Era Haruka. Aveva lo stesso
viso, gli stessi occhi e la stessa bocca. L’ho
fatto per te. Era lei. “Haruka…?” non riuscivo a crederci! La bambina mi
sorrise, era un sorriso da stregatto, largo e sinistro. E notai che aveva
moltissimi denti aguzzi sul davanti, mentre alla mia sorellina mancavano due
denti sulla fila inferiore, sul davanti. “Non sei Haruka!”
La creatura mi afferrò la caviglia e mi
azzannò. Urlai per il dolore. Mi sentivo come se mi stessero tagliando il piede
con una lametta, ed era così. Non volevo crederci, non stava succedendo! No! Cercai
di allontanare quella stronza dal mio piede, ma la creatura aveva in bocca
pezzi della mia carne e ne voleva assaggiare ancora. “No!” piansi, e le mie
lacrime si mescolarono al mio sangue. E a quello di altri. Questo deve essere il sangue delle altre sue vittime. Anche i pezzi
di carne, le budella e il resto dei corpi appartenevano alle vittime uccise in
precedenza. Tentai di liberarmi di lei, ma in men che non si dica mi afferrò il
braccio e mi staccò un pezzo di carne dal gomito, lasciandomi inerme e
paralizzata non solo dal dolore che stavo provando ma anche dalla paura. Le sue
mani piccole nascondevano degli artigli informi e letali che mi perforarono un
occhio, accecandomi all’istante. Urlai. E urlai ancora. Non avevo più ossigeno,
non potevo più respirare né lottare. Pensai fino all’ultimo che fosse un sogno
dal quale mi sarei svegliata. Doveva essere un brutto sogno, non c’erano altre
spiegazioni. Ma il mio cuore continuava a battere all’impazzata e lo sentivo
vicino. Un suono sordo come il colpo di un martello su un pezzo di stoffa. La
creatura mi stava divorando a poco a poco e io non riuscivo a impedirglielo.
Ricordavo solo il dolore che mi procurò quando mi staccò l’occhio e il braccio.
Prima di morire la creatura mi trasmise una parte dei suoi ricordi, per
dannarmi in eterno come tutti gli altri. Lei era stata uccisa per errore. Il
padre era un alcolizzato, beveva molto ed era un tipo violento, e ricordava le
liti frequenti tra la madre e il padre nascoste in parte dal rumore dei
rubinetti aperti. La madre la odiava, perché era una figlia indesiderata, ma
non avrebbe mai avuto il coraggio di ucciderla. Era stato il padre ad appiccare
l’incendio, dopo aver simulato il suicidio della donna con un colpo di pistola
alla tempia e dopo averla uccisa con un colpo alla gola mentre era ubriaco. Una
volta quel mostro era una bambina, pensai. Sentii un formicolio attraversarmi
la colonna vertebrale e il freddo impossessarsi delle ossa. L’odio aveva
trasformato quella povera vittima in uno spirito divoratore di anime e corpi,
condannato a conservare per sempre il suo rancore nei confronti degli esseri
umani. Un mostro che si nasconde nello specchio e che prende le sembianze delle
altre bambine per sentirsi ancora una volta umana. Non mi hanno chiesto scusa, la voce dello spirito mi trapanò il
timpano. Li voglio morti. Tutti quanti,
morti. Morti!
Urlai un’ultima volta, qualche secondo prima
che la creatura potesse strapparmi l’ultima briciola di linfa vitale dal corpo.
4 Novembre, 1983. Tokyo.
Maya andò in corridoio, mentre la strana
bambina la inseguiva come se stessero giocando. No, non era un gioco. Se ne
rendeva conto. Adesso quella bambina aveva preso le sue sembianze, le faceva
più paura di quanto non le avesse mai fatto qualsiasi altra cosa prima di
allora. Piangeva, aveva le guance rigate dalle lacrime, ma sapeva che non le
sarebbe servito a niente. Il livello dell’acqua mescolata al sangue era
arrivata al suo mento, tentò di aggrapparsi al mobile, nel farlo fece cadere
tre portafoto. Sentì il rumore del vetro rotto. Poi, accidentalmente si accorse
di aver rotto anche una boccetta di profumo che la mamma aveva gelosamente
conservato per anni. Abbassò gli occhi e l’acqua stava diminuendo. La bambina
si era fermata su un punto, sembrava stordita. Maya capì che doveva rompere più
cose possibili. Afferrò qualsiasi cosa e la buttò a terra, si arrampicò sul
mobile, uscendo fuori i cassetti e creando una sorta di scala. Ruppe tutte le
cornici e decise di prendere lo specchio e di gettarlo sul pavimento. Quando
sentì lo specchio cadere in mille frantumi, scorse l’acqua e il fango ritirarsi
fino a lasciare soltanto qualche macchia sul pavimento. La bambina strana
cambiò del tutto, la pelle morbida e pallida divenne rugosa, molliccia e
putrida fino a sciogliersi e a mostrare le ossa che nascondeva, gli occhi
divennero piccoli e insignificanti e il vestito cominciò a sgretolarsi. Maya
riprese a respirare e, approfittando di quel momento di debolezza, corse con le
lacrime verso la porta dell’ingresso. Le chiavi erano in una ciotola lì vicino.
– Aspetta! – la bambina ormai irriconoscibile e simile a una vecchia senza
occhi tese le mani verso di lei, lasciando cadere il coltello. – Ti prego,
aiutami. Aiutami! –
Maya prese la chiave della porta in fretta e
la infilò nella toppa, prima che lo spirito si avvicinasse ancora a lei. – Ti
prego, aiutami! – l’urlo dello spirito la inquietò molto, ma, quando fu fuori,
decise di correre immediatamente dai vicini di casa. L’unica cosa certa che
Maya sapeva in quell’istante era che mai e poi mai avrebbe rimesso piede in
quell’appartamento. Né si sarebbe mai più guardata allo specchio per il resto
dei suoi giorni.
3 commenti :
La storia in generale mi piace, ci sono delle trovate davvero interessanti e il finale è inaspettato (mi riferisco a Maya: non avrei mai immaginato che fosse sopravvissuta!)
Ti consiglio giusto di stare un po' più attenta alla forma linguistica - ci sono errorini, imprecisioni, cose così - e i personaggi sono abbastanza piatti, a parte la nostra contemporanea. Questo era comunque abbastanza inevitabile, parlando di un racconto con un "cast" così folto.
Comunque ripeto, mi è piaciuta :)
Alla prossima!
Ciao! ^_^
Mi fa piacere che ti sia piaciuto il mio racconto! E' il primo vero horror che scrivo (in un certo senso, ho sempre scritto storie fantasy e urban fantasy). Per quanto riguarda gli errori linguistici di poco conto e quelli di battitura presenti nel testo, ammetto di non aver revisionato tutto il racconto (ho controllato soltanto le prime due pagine) a causa di alcuni imprevisti. Non ne vado molto fiera, perché solitamente sono il tipo che deve ricontrollare tutto almeno una quindicina di volte prima di inviare qualcosa... tuttavia pensavo che il 31 Ottobre scadesse la consegna e ho inviato immediatamente il racconto non appena ho potuto.
Invece, per quanto riguarda i personaggi... amo le storie complesse, amo i personaggi strani e complicati. Però avevo progettato una trama diversa per questo racconto, una trama che comprendeva tre personaggi e tre storie diverse. La protagonista principale (la nostra contemporanea, Tomoka) è il personaggio più completo della storia, mentre gli altri personaggi servono solo da "contorno" (infatti volevo riuscire a realizzare una storia semplice e breve... molto breve). Inizialmente volevo che fosse Tomoka a salvarsi, dal momento che è la voce narrante in prima persona... verso la fine del racconto, però, ho voluto modificare il lieto fine (mi sembrava troppo scontato che si salvasse Tomoka!) e ho deciso di salvare la vita a Maya e di lasciare il finale aperto, come se il mostro fosse destinato a colpire ancora qualche altro malcapitato. Mi è sembrato un finale azzeccato per un horror per lasciare un po' di inquietudine nel lettore (spero di esser riuscita in questo intento!).
Grazie ancora per aver letto il mio lavoro!
Se ti va puoi dare un'occhiata al mio blog e leggere qualche altro mio lavoretto (ti lascio il link: http://laura-bf-world.blogspot.it/).
A presto!
L. B.
Capisco benissimo per gli errori di battitura ;) e anche per i personaggi. Il finale sì, è venuto inquietante :D
Posta un commento